La vulnerabilità ideologica

L’ipotesi su cui posano le Relazioni Internazionali, come sostenuto da Raymond Aron, è data dal fatto che le unità politiche si sforzano di imporre, l’una all’altra, la propria volontà.i

La Politica Internazionale comporta sempre, un conflitto di volontà: la volontà di imporsi o di non lasciarsi imporre la volontà da un altro. Per imporre la propria volontà, gli Stati più potenti tendono, per prima cosa, a cercare di imporre la propria dominazione culturale. La pratica della dominazione, non incontrando un’adeguata resistenza da parte dello Stato ricevente, provoca la subordinazione ideologico-culturale che dà, come risultato, che lo Stato subordinato soffra di una specie di sindrome da immunodeficienza ideologica a causa della quale, perde la volontà di difendersi. Possiamo affermare, seguendo il pensiero di Hans Morgenthau, che l’obiettivo ideale o teleologico della dominazione culturale, nei termini di Morgenthau, “l’imperialismo culturaleii, consiste nella conquista delle menti di tutti i cittadini che si occupano della politica di Stato, e in generale della cultura dei cittadini, che si deve subordinare a quella del dominatore. Senza dubbio, per alcuni pensatori, come Juan Josè Hernandez Arregui, la politica di subordinazione culturale ha come finalità ultima non solo la “conquista delle menti” ma anche la distruzione stessa della “identità nazionale” dello Stato soggetto alla politica di subordinazione. Hernandez Arregui riconosce che, anche se generalmente lo Stato che trasmette la dominazione culturale (lo “Stato metropoli”, come definito da Hernandez Arregui), non ottiene l’annichilimento dell’identità nazionale dello Stato ricevente, egli riesce comunque a creare nel ricettore, “…un insieme organico di pensieri e sentimenti, una visione del mondo estrema e finemente creata, che si trasforma in una “normale” propensione a concettualizzare la realtà [che] si esprime in una considerazione pessimista di questa, come un sentimento generalizzato di svalutazione, della mancanza di sicurezza di sé, e nella convinzione che la subordinazione del paese e la sua ininfluenza culturale, siano una predestinazione storica, assieme al suo equivalente, l’ambigua sensazione dell’inettitudine congenita del popolo cui si appartiene, e che solo l’aiuto straniero può redimire.”iii E’ necessario distinguere che, nonostante l’azione di subordinazione culturale da parte dello Stato emettitore non porta alla subordinazione ideologica totale dello Stato recettore, può danneggiare profondamente la struttura di potere di quest’ultimo se genera, attraverso la convinzione ideologica di una parte importante della popolazione, una vulnerabilità ideologica che diventa – in tempo di pace – la più pericolosa e grave delle vulnerabilità possibili per il potere nazionale, perchè, condizionando il processo di formazione della visione del mondo di una parta importante della popolazione e della élite dirigente, condiziona, l’orientamento strategico della politica economica, di quella estera e, ciò che è in assoluto più grave, intacca l’autostima della popolazione, indebolendo la morale e il carattere nazionali, ingredienti indispensabili – come insegna Morgenthau – del potere nazionale necessario per portare avanti una politica che raggiunga gli obiettivi di interesse nazionale. Riguardo l’importanza che ha avuto e ha la subordinazione culturale, nell’ottenimento dell’imposizione della volontà delle grandi potenze, Zbigniew Brzezinski afferma: “L’impero britannico d’oltremare fu inizialmente acquisito mediante una combinazione di esplorazioni, commerci e conquiste. Tuttavia, similmente ai suoi predecessori romani o cinesi o ai suoi rivali francesi e spagnoli, la sua capacità di conservazione derivò in gran parte dalla percezione della superiorità culturale britannica. Questa superiorità non era solo una questione di arroganza soggettiva da parte della classe governante imperiale, ma una punto di vista condiviso da molti dei sudditi non britannici.[...] La superiorità culturale, affermata con successo e accettata con tranquillità, ebbe come effetto la diminuzione della necessità di dipendere dalle grandi forze militari per mantenere il potere del centro dell’impero. Prima del 1914 solo poco più di mille militari e funzionari britannici controllavano circa 7 milioni di kilometri quadrati e quasi quattrocento milioni di persone non britanniche.”iv La subordinazione ideologico-culturale produce, negli Stati subordinati una “sovrastruttura culturale” che crea una vera e propria “teca di cristallo” che impedisce la creazione e l’espressione del pensiero antiegemonico e lo sviluppo professionale degli intellettuali che esprimono questo punto di vista. L’uso che diamo all’espressione “teca di cristallo” punta a sottolineare la limitazione invisibile causata dal progresso degli intellettuali antiegemonici, tanto nelle istituzioni culturali quanto nei media della comunicazione di massa.v

 

L’emersione del pensiero nazionale

In alcuni degli stati che hanno subito da parte delle potenze egemoniche una politica di subordinazione culturale sorge, come reazione, un pensiero antiegemonico che conduce ad un’Insubordinazione ideologica, che è sempre la prima tappa di ogni processo emancipatorio di successo. Quando questo pensiero antiegemonico riesce a tradursi in una politica di Stato, inizia un processo di “Insubordinazione fondantevi che, quando ha successo, arriva a rompere le catene che legano lo Stato, culturalmente, economicamente e politicamente, con la potenza egemonica. In Argentina, il pensiero antiegemonico fu definito dai suoi protagonisti, come il “Pensiero Nazionale” in contrapposizione col pensiero prodotto dalla subordinazione culturale, che chiamarono implicitamente “Pensiero coloniale“. Questo pensiero coloniale, secondo gli uomini del pensiero nazionale, dava origine a partiti politici, di destra o sinistra, che non mettevano in questione la struttura materiale nè il superstrato culturale, della dipendenza. Per questo, poteva esserci, nei termini degli stessi uomini del pensiero nazionale, tanto una destra che una sinistra “cipaya“.

 

La generazione del ’900 e la prima insubordinazione ideologica

In America latina, la prima Insubordinazione ideologica fu organizzata dagli uomini della cosiddetta “Generazione del ’900“, le cui figure più rappresentative furono l’uruguaiano José Enrique Rodòvii (1871-1917), il messicano Josè Vasconcelosviii (1882-1959) e l’argentino Manuel Ugarte (1875-1951). Essi giunsero alla conclusione che il processo di ribellione coloniale ispanoamericana, iniziato nel 1810, era stato in realtà un “gran fiasco” perchè, a differenza del processo di ribellione coloniale che aveva visto protagoniste le Tredici Colonie nordamericane, non si era concluso nella “Unità“, ovvero nella formazione di un solo Stato, ma al contrario – a differenza del desiderio e degli sforzi dei suoi principali eroi, Artigas, San Martin, Belgrano, O’Higgins, Bolìvar e Sucre – nella frammentazione della nazione ispanoamericana.ix Questa prima Insubordinazione ideologica, si manifestò politicamente nell’Aprismo, fondato dal giovane peruviano Vìctor Raùl Haya de la Torre (1895-1979) che fondò il primo partito politico ispanoamericano il cui fine era la costruzione di uno stato latinoamericano che si estendesse dal Rio Grande alla Terra del Fuoco, abbracciando un ideale concreto, il pensiero degli uomini della Generazione del ’900.x

 

 

La generazione revisionista e la seconda subordinazione ideologica

La seconda Insubordinazione ideologica, più localizzata geograficamente, ma forse più intensa dal punto di vista concettuale, ebbe origine nel Rio de la Plata, con protagonisti quegli uomini che possiamo definire de “La generazione Revisionista“. E parlando di questa generazione è imprescindibile menzionare i suoi partecipanti più illustri, come gli argentini Arturo Jauretche (1901-1974), Raúl Scalabrini Ortiz (1899-1959), José María Rosa (1906-1991), José Luis Torres (1901-1965), Arturo Sampay (1911-1977), Rodolfo Puiggrós (1906-1980), José Hernández Arregui (1913-1974), Jorge Abelardo Ramos (1921-1994), Fermín Chávez (1924-2006), gli uruguaiani Washington Reyes Abadie (1919-2002), Vivian Trías (1922-1980) e il più giovane di tutti, Alberto Methol Ferré (1929-2009). Al di fuori di Rio de la Plata, possiamo considerare iscritti a questa corrente anche il boliviano Andrés Soliz Rada e il cileno Pedro Godoy, entrambi ancora in vita. La “idea di forza” fondamentale che la “Generazione Revisionista” scopre, e che si trasformerà nella pietra angolare di tutto il suo pensiero, consiste nello svelare che la “guerra d’indipendenza spagnola” fu un fiasco, non solo, come sostenevano gli uomini della Generazione del ’900, perchè non si arrivò a creare politicamente la grande nazione ispanoamericana, ma anche perchè le diverse repubbliche che nacquero, prodotte dalla frammentazione dei vari vicereami, passarono dalla dipendenza formale dalla Spagna a quella informale dalla Gran Bretagna. Questa dipendenza informale dalla Gran Bretagna fece sì che tutte le Repubbliche ispanoamericane si accorpassero all’interno dell’economia internazionale, come semplici produttori di materie prime e che, a differenza degli Stati Uniti e del Canadaxi, subordinati ideologicamente, non applicarono una politica economica protezionista che gli avrebbe permesso di convertirsi in stati mediamente o fortemente industrializzati, cosa che, a ben vedere, avrebbe facilitato l’unità che propugnavano gli uomini del ’900xii. La Generazione Revisionista è una corrente di pensiero che scopre anche, che lo strumento principale attraverso cui l’Inghilterra aveva ottenuto la subordinazione ideologico-culturale dell’America spagnola ed in particolare dell’Argentina, consistette nella “falsificazione della storia“. E’ per quello che Raùl Scalabrini Ortiz scriveva: “Se non abbiamo presente la costrizione astuta e costante con cui la diplomazia inglese porta e mantiene questi popoli verso i destini che ha previsto nei suoi piani, le storie americane e i suoi fenomeni sociali sono narrazioni assurde in cui gli avvenimenti più gravi esplodono senza precedenti e si concludono senza conseguenze. Vi operano arcangeli o demoni, ma non uomini… La storia ufficiale argentina è un’opera di fantasia in cui gli sforzi sono stati consapevolmente e deliberatamente deformati, falsati e concatenati, secondo un piano preconcepito che vuole dissimulare l’opera d’intrighi compiuta della diplomazia inglese, sottorranea promotrice dei principali eventi accaduti in questo continente.”xiii Questa semplice ma travolgente citazione di Scalabrini Ortiz potrebbe riassumere, in modo chiaro e lapidario, il punto cruciale della scoperta di queste piume eccelse, al servizio della nazione: Mettere in chiaro che non solo fummo disgregati, ma che lo fummo per maggiore gloria, signoria e ricchezza dell’Inghilterra. Il nuovo dominatore che si insediò per saccheggiare le nostre risorse, intaccare le nostra ansie di libertà nazionali e giustizia per la nostra gente. E poichè la verità che seguiamo come colonia dipendente dalla Gran Bretagna, nostra dominatrice, non era un film “adatto a tutto il pubblico”, si è dovuta “inventare” una storia nuova, una storia che occultasse, deformasse e aggiustasse i fatti secondo i disegni del nuovo dominatore. Questo lavoro che, con maestria da veterano sofista fu portata avanti da Bartolomé Mitre, dopo la battaglia di Caseros, fu diffusa dalla scuola pubblica e dai programmi ufficiali: “La storia che ci hanno insegnato da piccoli, la storia che ci hanno inculcato come una verità che non si deve analizzare, presupponeva che il territorio argentino galleggiasse beatamente in un materiale angelico. Non ci attorniavano concupiscenze, o strane avidità. Tutto il male che ci fu tra di noi, si generava da noi stessi… Le lotte diplomatiche e intestine erano assenti dalle nostre contese… Per eludere la responsabilità dei veri istigatori, la storia argentina adotta quest’aria di finzione in cui i protagonisti si muovono senza relazioni con la dura realtà di questa vita. Le rivoluzioni si spiegano come semplici esplosioni passionali e succedono senza che vi sia nulla a fare da sfondo, vivande, munizioni, armi, equipaggiamenti. Il denaro non vi è presente, perchè seguendo l’impronta del denaro si può arrivare a scoprire i principali responsabili rivoluzionari… Questa storia è la più grande inibizione che pesa su di noi. La ricostruzione della storia argentina è, per questo, un’urgenza ineludibile e inderogabile.xiv Sapendo che esiste una verità diversa da quella “ufficiale”, come ben nota Scalabrini Ortiz nel paragrafo precedente, per quegli uomini diventa un lavoro inderogabile “scoprire” la storia reale, la storia che ci relegava a servi e ci legava al destino della potenza che, copertamente ci dominava. Quegli uomini di politica e piuma non potevano ignorare il compito di stabilire su solide basi, quali fossero i principi occulti, quelle premesse che ci porteranno alle vere conclusioni, lontane dalla fallacia mitrista e vicine alla nostra realtà e ai nostri problemi reali, perchè muniti di verità, possiamo arrivare alla soluzione dei nostri problemi. Secondo lui era necessario Esaminare (e confutare, documenti alla mano), la montatura mitrista, lontana dalla verità. A questo lavoro si consacrarono tra gli altri, principalmente Josè Marìa Rosa, Jorge Abelardo Ramos e Fermìn Chàvez. Secondo Arturo Jauretche, la falsificazione della storia argentina, ha avuto come finalità di: “Impedire, attraverso la deformazione del passato, che gli argentini possedessero la tecnica, l’attitudine per concepire e realizzare una politica nazionale… Si è preferito che ignorassimo come costruire una nazione e la difficoltà della sua formazione autentica, per far sì che ignorassimo come si porta avanti, come si costruisce una politica di fini nazionali, una politica nazionale… Forse non è un problema della storiografia, ma della politica: quello che ci hanno presentato come storia è una politica della storia in cui questa è solo uno strumento di piani più ampi destinati precisamente a impedire che la storia, la storia vera, contribuisca alla formazione di una coscienza storica nazionale che è la necessaria base di tutta la politica della nazione… La politica della storia falsificata è, e fu, la politica dell’anti-nazione della negoziazione dell’essere e delle possibilità proprie, tuttavia è incontestabile che la verità storica sia l’antecedente di una certa politica che si definisce come nazionale, e tutto coinciderà con la necessaria distruzione della falsificazione che ha impedito che la nostra politica esistesse come cosa propria, come creazione propria, per un proprio destino.xv

 

La necessità di un Nuovo Revisionismo Storico per la concretizzazione della nostra seconda indipendenza.

Mentre la prima insubordinazione ideologica degli uomini della Generazione del ’900 si materializzò politicamente nell’aprismo, la seconda insubordinazione ideologica, con protagonisti gli uomini della Generazione Revisionista, si realizzò nel peronismo che iniziò nel 1945, un processo di Insubordinazione Fondante che fu abortito 10 anni dopo, al prodursi del colpo di stato, indotto dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti del Nordamerica, che rovesciò il governo costituzionale di Juan Domingo Peròn (1895-1974). Alla sua caduta, il peronismo fu vittima come lo era stato a suo tempo, il rosismoxvi, della falsificazione della storia, e si presentò il governo peronista, come un governo “populista”, Peròn come un Generale fascista e il suo grande amore e compagna Marìa Eva Duarte de Peròn, Evita (1919-1952) come una “rivoluzionaria”, opposta al Generale borghese che era incapace di portare avanti la rivoluzione, creando, in questo modo l’ “evitismo” come forma “superiore” di antiperonismo.xviiFu allora che gli uomini della Generazione Revisionista, intrapresero il compito di rivendicare il peronismo, come già avevano fatto con il rosismo, però il loro compito rimase inconcluso perchè, la maggioranza di questi uomini di piuma e politica, furono sorpresi prima dalla morte. Concludere questo compito è la missione ineludibile del Nuovo Revisionismo Storico.

(Traduzione di Valentina Bonvini)

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